Noi dimentichiamo il corpo, ma il corpo non ci dimentica: maledetta memoria degli organi! (E. Cioran)
La sofferenza fisica di una persona non è distinta dai suoi affetti e dalla sua storia, ma riproduce semmai una modalità con cui esprime e racconta la biografia del proprio malessere.
Se l’anamnesi concerne la storia clinica della malattia, i suoi aspetti psicologici interessano invece l’individuo affetto da quella stessa patologia.
Il suo disturbo potrebbe essere interpretato come un segnale di alcuni dilemmi e problematicità non elaborati o irrisolti. Esso può dunque essere considerato l’anello di congiunzione e il legame inscindibile, fra il significato della malattia e il significante, ossia la vita della persona.
L’accettazione di un cambiamento attuale e futuro imposto dalla malattia fa sì che il soggetto in prima battuta si percepisca come una vittima, e che la patologia venga da costui avvertita come un evento non trattabile alla stregua di un lutto.
Non esistono malattie di scarsa rilevanza: ogni esperienza apre interrogativi esistenziali sul valore della vita, sul dolore, sulla morte e sul senso umano di impotenza, rimettendo in discussione il rapporto con il proprio corpo, il significato dato alla sofferenza, alla salute, così come alle relazioni familiari, sociali e professionali.
L’incontro con la malattia si presenta infatti scomodando difese e alleanze inconsce.
Il tentativo più economico di risposta alla diagnosi è il rifiuto della malattia, ossia la negazione del suo livello di realtà. Se la persona tuttavia riesce ad abbattere tale schermatura, si immerge in una posizione psicologica completamente integrata nella patologia, caratterizzata da vissuti di ingiustizia e utilizzo di meccanismi proiettivi.
La rabbia è il suo tentativo onnipotente di controbatterla, ma anche di attuare una conciliazione con essa.
Il soggetto, nello sforzo di rimettere ordine fra i cambiamenti decisi dalla malattia, si avventura in un impegnativo processo di identificazione con essa, rimettendo in discussione il senso della propria identità, con profonde ripercussioni nella sfera psicologica, affettiva, sessuale, familiare, sociale.
La condizione patologica implica infatti la fantasia di esserne “dominato” e l’urgenza di adattarsi a una nuova disposizione psico-fisica obbligata.
Il soggetto in tale situazione si sente sottoposto a un “potere estraneo” che finisce per tramutare il corpo in un “nemico”, un “torturatore”.
Avviene dunque, in vari gradi, una scissione tra la nuova identità di malato e l’identità precedente all'evento malattia; una profonda rottura tra il cosiddetto “prima” e il “dopo”, con la propensione a focalizzarsi prevalentemente sulle limitazioni che la malattia ha comportato, in particolar modo su quei progetti o attività che la condizione di salute compromette.
Tale spaesamento comporta un processo di demolizione e rinnovamento interiore ed esteriore, in cui il senso di certezza del “chi ero” prova a tenere insieme una nuova affermazione del “chi sono”.
Gli esiti da integrare sono amari e discordanti, poiché essi sono il frutto di un procedimento di perdita e di rinuncia di una trascorsa stabilità psico-fisica.
Le sensazioni di frammentazione di sé che emergono nell'esperienza di malattia attivano vissuti di paura e limitatezza, di bisogno e di rassicurazione, che iniziano a manifestarsi immediatamente nel dialogo con il medico e successivamente nelle relazioni più significative. Queste emozioni sopraggiungono quando il soggetto avverte la condizione di sé non più solida e integra, percependo l’Io e il corpo in un'identità di compromesso, un’identità smarrita.
L’ansia e la depressione sono gli indicatori più diffusi di sofferenza psicologica durante ogni fase di malattia e frequentemente persistono anche in seguito alla guarigione fisica, poiché la persona manterrà maggiore fragilità emotiva e bisogno di rassicurazione a causa di psicologiche paure di "recidive".
In questa delicata condizione, i medici, così come i professionisti “che curano”, sono identificati come “figure del destino” in cui si investono le speranze di guarigione del paziente.
All'interno di questa debole trama affettiva, la funzione della parola e dei trattamenti sul corpo risultano essere dei validi strumenti per non essere sopraffatti dall'emozionalità stessa.
Attraverso questi strumenti il vissuto può infatti essere verbalizzato, ripensato, organizzato e ricostruito verso percorsi di discioglimento.
In questo senso la malattia rappresenta anche il materiale umano di un racconto affettivo, il cui compito narrativo spetta a tutti gli “attori” che condividono quell'esperienza.
I medici e i professionisti che vivono un contatto terapeutico con il paziente hanno così la funzione di accompagnare, sostenere e testimoniare l’evoluzione emotiva degli eventi.
Dr.ssa Cecilia Bertolaso
M. Cianfarini, L'intervento psicologico in oncologia. Dai modelli di riferimento alla relazione con il paziente, Carrocci, Roma, 2007.
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L. Scoppola, La parola non trovata. Mente, corpo e istituzione, Franco Angeli Editore, Milano, 2011.
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